Approfitto
dell'articolo di Luciano Gallino su Repubblica di oggi per commentare a mia volta.
Siamo in periodo di vacanze, ma ormai sappiamo tutti di essere in attesa di settembre per capire non tanto se disastro ci sarà, bensì quali ne saranno le proporzioni. Il lavoro scarseggia, le banche hanno volentieri incassato gli aiuti statali ma non concedono credito, resta da capire quante saranno le aziende che non riapriranno dopo le vacanze e contare i morti, ovvero i licenziati. Con le banche che, pur avendo acchiappato ben volentieri gli aiuti statali, ancora non allargano i cordoni del credito; con il tessuto produttivo costituito per oltre il 95% da piccole e medie imprese che di quel credito hanno bisogno come dell'aria che respiriamo; con una sedicente classe imprenditoriale cresciuta nella cultura della speculazione piuttosto che della produzione e sullo scarico del rischio imprenditoriale sulle spalle di chi lavora, prima o poi il risultato non poteva essere che questo. Inutile dire "è la crisi". Le crisi non nascono dal nulla, hanno origini ben precise, andrebbero prevenute e se proprio non ci si riesce vanno curate, né più e né meno che come una malattia.
Se andiamo dal dottore, la prima cosa che ci dirà sarà che non basta curare i sintomi, bensì bisogna rimuovere le cause dell'insorgenza. Se siamo troppo grassi, ad esempio, ci dirà che la liposuzione non è la soluzione poiché si limita a rimuovere l'effetto. Ma se continuiamo a mantenere una dieta sbagliata, tornare ad essere obesi sarà solo questione di tempo. Rimanendo nell'esempio, la condizione primaria e insostituibile per rimuovere le cause di una malattia è la presa di coscienza di avere un problema e non nascondersi più il fatto di avere un'abitudine alimentare scorretta. Insomma bisogna ammettere a - di alimentarci in modo scorretto, b - che quell'alimentazione è alla base della nostra obesità, e c - che quell'obesità ci crea attualmente una perdita di forma ma a lungo andare anche problemi cardiaci e quindi mortali. Qui le ideologie servono solo a farsi del male. Avevo un collega di lavoro americano che, per una questione tutta ideologica, si rifiutava di ammettere che una dieta basata sulla assidua frequentazione di McDonald's rappresentasse un problema alimentare e di salute. Raggiunto un certo peso, coi rotolini dell'amore giunti a dimensione di salvagenti del Titanic ha dovuto suo malgrado convincersi che la sua posizione ideologica andava rivista o, meglio, abbandonata. Non è diverso da quanto accaduto negli Stati Uniti quando, alcuni mesi or sono, vasta parte dei componenti repubblicani del congresso ha convenuto sulla necessità di concedere aiuti statali alle banche per evitarne il fallimento. Solo uno sparuto gruppo di falchi oltranzisti rimase dell'opinione che se il mercato decretava il fallimento di una banca, ebbene questo non poteva essere impedito pena il distacco dall'ideologia del mercato autoregolante e la discesa negli inferi del socialismo. Una posizione che rammenta molto da vicino l'atteggiamento dei testimoni di Geova nei confronti delle trasfusioni di sangue, o quelle degli adepti di scientology riguardo al riconoscimento di malattie quali l'autismo.
La posizione ideologica di fronte a una esperienza dannosa ai limiti della mortalità è il peggior atteggiamento che si possa assumere. Certo, una volta che il corpo è morto perché non abbiamo saputo, o meglio voluto, aiutarlo, il problema è comunque risolto. Tutto sta a decidere se la priorità è salvare l'ideologia oppure il paziente. Se per noi la vita va intesa come un continuo aggiustamento di tiro con lo scopo di cercare di star meglio, oppure se va intesa come la intendeva Magda Goebbels, che avvelenò i suoi figli pur di non farli vivere in un mondo senza nazismo.
Qui bisognava svegliarsi molto tempo fa. La cosiddetta deregulation proveniente dagli Stati Uniti di Reagan e proposta veementemente in Italia da Craxi (quello stesso che viene definito come innovatore e arguto lettore della realtà in cambiamento da quell'imbecille di Veltroni) è quell'impronta ideologica che ha cominciato sfasciando la scala mobile, ovvero l'adeguamento automatico dei salari al tasso d'inflazione. Per proseguire con la dismissione o privatizzazione di aziende pubbliche vitali per il Paese. Con conseguenti esternalizzazioni, il cappio del precariato inteso come flessibilità, e in conclusione la rottura di patti sociali sui quali era stata costruita la repubblica.
Tutto per un concetto di liberismo, o capitalismo senza regole, che - si teorizzava - avrebbe regolato se stesso da sé con la domanda e l'offerta. Quello che non si è capito è che laddove una qualsiasi struttura si muove senza regole, tutto si tramuta in una giungla, in un far west in cui è il più forte e il più veloce a dettar legge, a scapito di tutti gli altri. In conclusione, le regole continuano ad esserci: quello che cambia è lo scopo ultimo. In un mercato con regole, lo scopo è quello di far star meglio tutti. In un mercato senza regole (statali), si concede libertà di prosperare a un numero esiguo e sempre più limitato di personaggi, a scapito di un numero sempre più vasto di persone, interi settori sociali. Ecco la forbice che si allarga, e ne sentiamo parlare da almeno 3 lustri.
Allora quando parliamo di questa crisi bisogna evitare di nasconderci dietro alle foglie di fico.
È il liberismo, più che la globalizzazione che ne è una diretta conseguenza, alla base del dramma mondiale di oggi.
Se un manipolo di banchieri senza scrupoli ha avuto mani libere per avvelenare il mercato, la causa risiede nella mancanza di regole, quelle che quel delinquente di De Michelis definiva "lacci e lacciuoli" dai quali andava liberata l'economia. Ad alcuni ha fatto comodo, ma alla stragrande maggioranza questo ha creato un danno irreparabile oggi e per generazioni a venire.
Ci sono comunque responsabilità condivise in molti livelli. Il liberismo sfrenato è sembrata una soluzione ottimale a un gran numero di padroni e padroncini, dei quali è costituito il 95% del tessuto produttivo italiano, per liberarsi progressivamente di quel "dolore al culo" (per usare un'espressione americana) costituito dai sindacati. Flessibilità la parola d'ordine, ovvero la possibilità di licenziare a piacere. Ma quale goduria non dover più interagire con qualcuno che, sottoposto e pagato, può dirti "così non si fa, non puoi fare così"! Poter buttare fuori dall'azienda qualcuno solo perché osa contraddirti - non importa se la critica è intesa magari come costruttiva - o perché semplicemente ti sei svegliato male e non vuoi più vedere la faccia del primo dipendente che hai incontrato.
Bella cosa la flessibilità: lasci oggi un posto di lavoro e domani ne trovi un altro. Sembra il paradiso in terra. Ma - di nuovo - senza posizioni ideologiche di mezzo bisogna aprire gli occhi e rendersi conto, come dice giustamente anche Gallino nel suo articolo, che questa favola non funziona neppure negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia.
E allora parliamo di questo paradiso terrestre che si chiama Stati Uniti. Un paradiso terrestre del liberismo che paga il prezzo del 20% della popolazione senza alcuna assistenza sanitaria. Forse per apprezzarlo bisogna avere appunto un'atteggiamento del tutto ideologico oppure, anzi in combinata, far parte di quel ristretto numero di persone che a fronte di circa 50 milioni di poveri assoluti può invece permettersi qualsiasi cura, non importa quanto costosa. Sarà, forse, il paese delle opportunità. O lo sarà stato in passato. Ma di certo sottosta a una forma di darwinismo sociale che in Europa abbiamo giá visto spinto alle più estreme conseguenze. Il forte (ricco) prospera, il debole (povero) si estingue. E se non si estingue da sé lo estinguiamo noi. Quando raccontavo a un'amica americana delle contraddizioni viste a Cuba l'anno scorso, degli slums poverissimi (anche se non a livello di quelli brasiliani o africani), mostravo le foto e mi rispondeva: "la cosa triste è che non occorre andare a Cuba per vedere queste scene, basta andare in molti sobborghi di città americane". Eccolo, il paradiso liberista. Ecco l'ipocrisia basata sull'ideologia per cui gli Stati Uniti più che essere devono essere il paradiso della democrazia e del benessere, delle opportunità, e - per esempio - Cuba deve essere considerata una dittatura crudele. Propaganda, niente altro che propaganda. Tanto che a far da contraltare alla mia onesta amica americana, ci sono i cubani che vengono di qua ammaliati dall'abbondanza, dalla ricchezza... credono loro. In realtà semplicemente accecati dal sogno di trovare il supermercato pieno di ogni genere. Senza considerare il prezzo, e non solo di quello attaccato al cartellino della merce. Arrivano, abituati al lento ritmo di vita della loro isola e del loro modo di vivere, e vedono a quale ritmo ci massacriamo per poter entrare in quel supermercato e caricare il carrello. Capiscono il motivo per cui infarti e ictus sono cause primarie di decesso. E alla fine non sono pochi quelli che dicono che siamo matti e decidono di tornare a Cuba.
Flessibilità significa precarietà. Significa compressione dei salari e del potere d'acquisto. Significa non riuscire ad affrontare non solo l'acquisto di una casa (si può vivere benissimo anche in un appartamento) ma neppure poter fare progetti per sposarsi e avere figli, che vanno mantenuti e costano un patrimonio. Significa vivere alla giornata, e quando si trova un lavoro malpagato essere costretti a subire tutto ciò che la luna del datore di lavoro gli suggerisce. Di fatto un progressivo ritorno alla schiavitù.
Perché stupirsi dunque dell'atteggiamento della proprietà della Innse? Quello che sta facendo il proprietario non è concettualmente diverso da chi specula in borsa, o dal fatto di poter acquisire un'azienda importante come la Telecom con una frazione percentuale, senza un progetto d'impresa e senza capitali, spolpandola e arrivando in conclusione a offrire servizi peggiori e mettendo sul lastrico tanto schiere di lavoratori quanto di piccoli risparmiatori che investono e vedono ridursi il valore di quanto da loro acquistato.
Infine non è diverso da quella mentalità per cui siamo ricchi perché tutti abbiamo un telefonino o un'automobile, perché è più importante produrre e vendere che rispettare la vita e l'ambiente. Se non facciamo in modo di rispettare questo, perché dovremmo stupirci se poi non viene rispettato il lavoro, la dignità di chi lavora?
Non abbiamo ancora visto niente. C'è ancora grasso sufficiente da spremere perché in tanti siano convinti che "passerà", senza rendersi conto che oggi stiamo spendendo quanto accumulato ieri dai padri. Che faremo quando anche quelle risorse saranno esaurite? È la generazione dei "ni-ni", come la chiamano in Spagna. Né studiare (perché il titolo di studio non apre alcuna porta per un lavoro stabile e pagato decentemente) né lavorare (perché lavoro non ce n'è). Pessimismo o realismo? Intanto si vive di qualche sussidio o dell'aiuto di mamma e papà. O con la pensione dei nonni. Le proteste studentesche di qualche mese fa dicevano o urlavano chiaramente: la crisi non l'abbiamo creata noi, non aspettatevi che la paghiamo noi. Dovrebbero forse pagarla i pensionati che hanno lavorato (e pagato) per una vita con la promessa di una vecchiaia tranquilla? Dovrebbero pagarla operai che non hanno altra colpa se non quella di aver lavorato? Dovrebbero pagarla allora i contadini, costretti dalla grande distribuzione a vendere i loro prodotti sottocosto? Vedremo in scena la guerra dei poveri, o dei trombati. Contadini contro operai? Vecchi contro giovani? Uomini contro donne? Al momento vediamo di peggio, ovvero un gran numero di appartenenti a questa o quella categoria, classe, o genere che - invece di indirizzare correttamente la loro frustrazione e la loro rabbia - finiscono col cercare rifugio laddove il problema si crea, non dove si risolve.
Non c'è da stupirsi, e forse è arrivato il momento di non scandalizzarsi neppure, perché scandalizzarsi è un dispendio di energie, una catarsi, una canalizzazione sbagliata del rifiuto, e prima o poi - l'Italia lo dimostra - a forza di scandalizzarsi ci si assuefa.
Bisogna rendersi conto che è finita, chiudere col liberismo e coi loro ideologi. Non basta lamentarsi, non basta scandalizzarsi. Bisogna avere il coraggio di tornare in piazza, gridare e imporre che la solidarietà sociale non è un bene disponibile. Le banche vanno aiutate? E allora che lo Stato abbia il diritto (e anche il dovere) di supervisionare! Non come dice la Marcegaglia - degno prodotto di questo sistema marcio - "ben vengano gli aiuti alle banche, ma subito dopo lo Stato faccia un passo indietro". È come se io andassi in una delle sue aziende e le dicessi "assumi per cortesia una decina di dipendenti, ma un attimo dopo tirati in là e non controllare se fanno il loro lavoro oppure no". Basta conflitti di interesse e interessi privati in affari pubblici. Basta scatole cinesi e basta assenza di regole, che aprono solo la strada all'ingordigia criminale. E basta anche coi finti garantisti: chi infrange la legge va perseguito, a cominciare da chi sta in alto. Altro che puttanieri in cima al governo.
In ogni caso, finché gli operai inchiappettati e in cima a una gru non trovano di meglio che chiedere aiuto a Berlusconi, vuol dire che la lezione non è stata capita. Correre in braccio al piduista per salvare la democrazia? Rivolgersi alla mafia per ottenere giustizia? Chiedere aiuto a Berlusconi per impedire che un proprietario senza scrupoli venda per ottenere una plusvalenza speculativa? O considerare l'immigrato come il pericolo e votare Lega... ah certo, tutto già visto. Anche i tedeschi votarono per i nazisti che urlavano al pericolo degli ebrei, dei comunisti, dei nemici interni ed esterni con le sanzioni, le riparazioni di guerra. Ma a scatenare la prima guerra mondiale non furono gli ebrei, bensì le élite al comando di potenze in espansione industriale alla ricerca di materie prime e mercati, in una corsa avida e senza scrupoli. Suona familiare? Guerra, danni da ripagare, crisi mondiale e infine balle colossali che la gente si beve perché è più facile credere che gli ebrei (o gli immigrati, o qualsiasi altro gruppo sociale) siano responsabili di qualcosa di tremendo mentre la verità era che il conflitto sociale e una risposta violenta servivano a una minoranza per fare soldi e acquisire potere illimitato.
La memoria si perde, l'ignoranza trionfa, la storia si ripete.